Emilio Solfrizzi: «Non volendo ho rovinato la vita di Riccardo Scamarcio da giovane» (2024)

In teatro non si ferma praticamente mai e lì - per sua fortuna – fa più o meno quello che vuole. A 63 anni, infatti, il pirotecnico attore barese Emilio Solfrizzi l'8 ottobre debutta al Teatro Quirino di Roma - sarà in cartellone fino al 20 dello stesso mese - con un testo di Plauto, Anfitrione, da lui adattato, diretto e interpretato. Il cinema e la tv, però – nonostante il grande successo da protagonista in serie come Sei forte, maestro e Tutti pazzi per amore e in film diretti da Rubini, Vanzina, Comencini, Genovese e Soldini - l'hanno messo un po’ da parte. Dal 2016 a oggi ha girato due film, nel 2017 ha fatto l'ultima fiction.

Se va in giro per strada le chiedono spesso “Che fine ha fatto”?
«Sì, certo. Che fastidio...».

Bene. Che fine ha fatto?
«Oddio... Anche su Internet leggo queste domande e un po’ mi fa male. Ma che vuol dire? Lavoro in teatro, giro l’Italia da nord a sud come un matto e mi diverto come sempre. Non faccio film e serie da un po’ di tempo, ma sono comunque un uomo molto fortunato che, tra l’altro, detesta tutti quelli che fanno la lagna. Va tutto bene, mi creda».

Va bene, ma con il cinema e la tv che cosa è successo? Lei non sbagliava un colpo e all'improvviso è sparito.
«Non lo so. Non dovrebbe chiederlo a me».

Molti bravi attori, giovani e no, dicono sempre più spesso che a Roma c’è un circoletto magico di attori e registi: se ne fai parte, lavori sempre. Se ne sei fuori, diventa tutto più complicato. Conferma?
«Io sono pugliese e quindi evidentemente non mi hanno fatto iscrivere... Non so che dire, è un discorso molto delicato: di sicuro nascere in certi ambienti, in certi luoghi, aiuta. Un attore romano, o napoletano, non ha il problema di farsi capire perché quasi sempre le storie sono ambientate nella sua città. Certi vantaggi altri colleghi - come il sottoscritto - non li hanno mai avuti».

Giovanna Mezzogiorno ha detto, dopo essere ingrassata, che il mondo del cinema è spietato: è stata esclusa e nessuno l'ha aiutata. Che ne pensa, è davvero così?
«Il mondo è feroce per tutti, non solo per gli attori. Per noi il problema è che la torta è sempre più piccola, non ci sono tutele e siamo molto individualisti. Ecco, forse bisognerebbe rimanere fedeli a se stessi».

Che vuol dire?
«Che bisogna fottersene degli altri, di quelli che dicono “Che fine ha fatto?”, per esempio. Si deve seguire la propria strada e scegliere sempre. E poi se uno alla fine apre una tabaccheria, perché nessuno lo chiama più, deve essere pronto a dire con sincerità come sono andate le cose. Evitando l'effetto Umberto Bindi».

Cioè?
«Io l'ho amato, ma ho trovato terribile e ingiusto sentirlo dire: “Perché non mi chiama più nessuno?”. Diciamo che era più bello il ricordo».

Ha detto tanti no?
«Qualcuno. A un certo punto, dopo i trenta, ho avuto la pretesa di essere considerato un attore a tutto tondo, non solo un comico, e così ho rifiutato proposte che mi avrebbero legato per sempre a un cliché. Io so di essere buffo, però l'idea di fare in eterno le stesse cose mi faceva venire i brividi. Alla fine è andata bene, grazie a quei registi che per primi mi hanno scelto per ruoli drammatici: Cristina Comencini per Matrimoni, che nel 1998 mi ha fatto avere una candidatura al David di Donatello come miglior attore non protagonista; ed Enzo Monteleone per El Alamein del 2002, in cui per la prima volta ho recitato un ruolo interamente drammatico, senza nemmeno un ammiccamento brillante».

È vero che si è rifiutato di condurre un gioco del preserale tv?
«Sì, ma non le dico quale. Forse un po' mi sono pentito, perché l’avrei fatto bene, ma avrei dovuto scegliere tra recitare e fare solo tv: insieme non credo che si possano fare».

Perché ha scelto di portare in scena “Anfitrione” di Plauto, una commedia degli equivoci con Giove che prende le sembianze di Anfitrione per dormire con sua moglie Alcmene?
«Amo il teatro da quando, giovanissimo, andai a vedere il Miles Gloriosus di Plauto. La sua unica ambizione era quella di far ridere il pubblico fino a fargli dimenticare i problemi di ogni giorno. Essendo un genio ci riusciva ma faceva anche riflettere: questo testo, infatti, ancora oggi è attualissimo. Anche oggi subiamo le intrusioni nelle nostre vite da parte di nuovi dei come Elon Musk, per citarne uno. E poi quante volte abbiamo avuto a che fare con qualcuno completamente diverso dall'idea che ci eravamo fatti di lui?».

Quante volte?
«Tante. E questo mi ha fatto anche male. Mi ha sempre salvato il fatto che una delle mie rare qualità è l'apertura verso gli altri. Magari mi deludono e mi feriscono però quella stessa disponibilità mi ha dato la possibilità di coltivare bei rapporti umani. Quindi se mi faccio male so da chi farmi curare».

Lei è aperto ma sembra anche malinconico. Lo è davvero?
«Sì. Oggi mi piace ma in passato mi sono sempre difeso da questa nota malinconica che mi porto dentro. Un giorno, quando stavo facendo Sei forte, maestro, Gastone Moschin, un caro amico, mi disse “Che belli i tuoi occhi da malinconico”. Eppure non avevo motivo per esserlo, ero felicissimo».

Se c'è, qual è l'equivoco più ricorrente sul suo conto?
«Essendo un insicuro, cosa che ho vinto grazie al mio lavoro, per tanti anni nel tentativo di mostrarmi diverso da quello che ero sono stato giudicato arrogante, cosa che non sono mai stato».

A 63 anni si sente più in credito o in debito?
«In credito. Da un lato penso di essere fortunato perché venendo dalla Puglia ho fatto un percorso che molti giudicano ottimo. Dall’altro penso di poter dire ancora la mia, per questo la Rai che mi snobba o il cinema che non mi propone progetti adatti a me mi fanno star male. Quello che ho fatto è sempre andato bene: perché non dovrei pensare di poter dare ancora un contributo?».

Quando da Bari nel 1998 venne a Roma dopo aver sciolto il duo comico Toti e Tata, cosa cercava?
«Ero ambizioso e volevo di più. Io e Antonio (Stornaiolo, ndr), che per me è più di un fratello, eravamo famosissimi in una zona che andava più o meno da Salerno fino a Cosenza, ma un chilometro dopo tornavamo a essere due sconosciuti».

Il pugliese Checco Zalone le piace?
«Sì, tanto. È stato così onesto da dire che per lui tutto è cominciato grazie a quell'humus creato da me e Antonio con Toti e Tata».

È vero che in quei panni ha rovinato gli anni giovanili di Riccardo Scamarcio, pugliese di Trani?
«Nooo (ride, ndr), o almeno non intenzionalmente. Io e Antonio avevamo inventato il personaggio di Piero Scamarcio, un mezzo delinquente barese che, indossando una tuta d’acetato sul petto nudo, con le catene d’oro al collo e una birra sempre in mano, cantava le hit straniere traducendole alla lettera. Roba tipo Pioggia viola per Purple Rain di Prince. O Mattinata di settembre per September Morning di Neil Diamond. Le gag con Scamarcio, che interpretavo io, erano quelle che piacevano di più. E Riccardo ha avuto un po’ di noie…».

Vi siete mai incontrati?
«Sì, tempo dopo. E quando ci siamo stretti la mano per presentarci, sorridendo, mi ha detto: “Emilio, non hai idea che cosa è stata la mia vita per colpa tua. A scuola mi massacravano (Scamarcio è del 1979, ndr). Mi chiedevano tutti del “parente” cantante. Mi chiedevano di fare come lui… ”. Noi avevamo scelto il nome Scamarcio a caso».

Ha conti in sospeso?
«Diciamo che ho tanto da dire a tante persone, ma ho molta pazienza. Anche se non vedo l'ora».

Lo sfizio da togliersi, quello più urgente?
«Tornare a fare tv e cinema con progetti belli e di qualità».

I suoi figli che fanno? Seguiranno le orme paterne?
«Non credo. Ma non perché li abbia disillusi, perché vogliono così: uno è iscritto a ingegneria e l'altro sta per laurearsi in giurisprudenza».

È vero che disegna mobili?
«Sono un appassionato di ristrutturazioni e mi viene bene la divisione degli spazi. Per i mobili io butto giù un'idea, poi dei professionisti la realizzano. Mi diverto come un matto».

Senta, a 62 anni niente è meglio di...?
«Non pensarci».

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